La gloriosa terra osca (l’attuale Sannio e Irpinia, ma anche il Molise, parte della Lucania e dell’Abruzzo) non offre solo colline verdeggianti e aria buona, ma anche (tante) storie da raccontare. Le antologie Oschi Loschi raccolgono il meglio della narrativa “osca” contemporanea, senza condizionamenti di genere o stile, il tutto condito da una predisposizione al “losco” nel senso più ampio e allettante del termine.

domenica 30 marzo 2014

Intervento della prof.ssa Angela Maria Pelosi su OL3



"Storie per attaccar bottone" è la terza raccolta di racconti degli Oschi Loschi, giovani autori locali, in prevalenza beneventani, che abbiamo già avuto modo di conoscere ed apprezzare in un precedente incontro qui a Cerreto qualche tempo fa. Curatore dell’opera è il bravo Flavio Ignelzi, il quale con maestrìa e genialità ha raccolto e selezionato i 18 racconti che compongono il libro, presentando il meglio della narrativa osca contemporanea. Il libro è edito dalla Never Mind di Maria Elena Napodano alla quale la letteratura sannita deve molto, in quanto ella continua, a dispetto delle difficoltà dell’editoria attuale, a credere che valga la pena far conoscere ciò che, nella nostra terra, è degno di essere notato, sia per qualità, sia per specificità. Una visione assolutamente condivisibile. Un libro non ha valore soltanto perché ha successo, ma soprattutto perché, come uno scrigno, conserva per sempre i pensieri, le parole, le emozioni, le intuizioni più belle dell’umanità.


Il titolo dell’opera è chiaramente una provocazione al lettore. Attaccar bottone, come ben spiega Fausto Raso, è un’espressione che nasce in campo medico. Infatti anticamente i medici per cauterizzare le ferite adoperavano uno strumento di ferro, la cui estremità terminava con una pallottola simile a un bottone, a cui si dava fuoco, Il paziente a cui veniva attaccato il bottone, sicuramente provava un dolore molto intenso, sebbene per pochi secondi. In seguito la locuzione “attaccar bottone” dal campo medico passò, in senso figurato, al significato di parlare male di qualcuno e, infine, col tempo acquistò il significato di affliggere una persona, cioè costringerlo a sopportare un discorso lungo e noioso.

Il richiamo alla satira 9 del libro primo delle satire di Orazio, poeta latino, è quanto mai naturale. Infatti la satira 9, detta dello seccatore o dello scocciatore, è una vivace scenetta che vede lo stesso Orazio passeggiare tranquillo per le vie di Roma, quando ad un tratto si imbatte in un suo conoscente, che gli si attacca come una zecca per sommergerlo di chiacchiere e per convincerlo ad introdurlo nel circolo di Mecenate. Il povero Orazio comincia a sudare freddo, tenta in tutti i modi di liberarsi, ma è tutto inutile, lo scocciatore lo segue per ore. Infine il poeta viene salvato provvidenzialmente da un tizio che trascina il seccatore in tribunale.

Ma, a differenza di Orazio, i lettori di questa bella raccolta di racconti, non si opporranno di certo agli autori che vogliono attaccar bottoni con loro. Tutt’altro. Le storie che andiamo a presentare non sono per nulla ciance noiose ma piccoli capolavori di scrittura piacevolissimi, da gustare fino in fondo. Ancora una volta, grazie a questa opera, possiamo apprezzare il valore del racconto, un genere letterario che ha il pregio di riuscire a contenere la più alta concentrazione di significati e abilità che un autore riesce a trasmettere.





Il primo attaccabottoni è Valerio Vestoso, con il suo racconto dal titolo innocuo di "Sabatino", un personaggio sospeso tra desiderio e realtà. Un sassofonista che suona alle feste di gente noiosa ed annoiata. Un musicista che non sopporta lo sbadiglio del pubblico e che sogna di fare un viaggio senza ritorno, lontano, oltre quella ovvietà provinciale, lontano da una moglie che aveva preso ad ingrassare già sull’altare il giorno delle nozze. Lontano, a Malibù, una terra dove i sassofonisti sono patrimonio dell’umanità e vengono rispettati e venerati. Malibù dove il mare è senza confini. Malibù, dove non esistono sbadigli, i nemici spregiudicati del musicista live. Lo stile è essenziale. L’autore spesso si avvale del soliloquio, una formula perfetta per avvicinare il lettore ai pensieri del protagonista.



E poi, tanto per restare in tema di musica, ecco "Fur Elise" di Giuseppe Guarino. Il racconto è un bel ritratto, dalle pennellate decise. Potrebbe intitolarsi: la ragazza al pianoforte. Le dita scorrono sui tasti e dagli occhi di Leda sgorgano desideri nascosti. Il viso è dolce, ma l’espressione è velata dall’ambiguità. L’amore è egoismo? L’amore può essere una vendetta a lungo perseguita? Le note di Per Elisa sgorgano dal quadro, cariche di ribellione, frecce dolorose per il povero Rob. L’autore ha saputo concentrare in modo molto equilibrato la evoluzione interiore della protagonista, riuscendo a stupire il lettore per un finale davvero originale.



Collettivo Calamano, alias Ernesto Razzano e Marcello Serino, sperimentano un genere originale, il racconto a quattro mani. "L’intervista definitiva" è il titolo della storia. Da una parte c’è un artista ritratto nei suoi pensieri, o meglio nelle sue finzioni, mentre aspetta di essere intervistato. Dall’altra c’è l’intervistatore, ritratto anche lui nelle sue paure e incertezze. Due figure quasi speculari. Due esistenze in bilico tra l’essere e il dover essere. Un’angoscia a volte mediata solo dal whisky e dalla consapevolezza dell’inutilità dei gesti. Traspare in entrambi i personaggi una sorta di alienazione, di male di vivere, che porta in superficie una mistura di sentimenti aggrovigliati e irrisolti.



Alessandro Paolo Lombardo ci trasporta nel mondo del web con il suo "Proplay Contrast. La regola". Nel racconto l’angoscia, l’alienazione di Achtung, alle prese con parole confuse e distorte: proplay contrast. A volte davvero una password dimenticata può portarti sull’orlo della disperazione. Soprattutto se hai una madre che ti nasconde la sua età o una nonna impostata sulla funzione zucchero. E soprattutto se Acta, la tua donna, non ne vuol sapere di svegliarsi, per darti una mano. Un bel bozzetto sui grandi e piccoli drammi che ci offre quotidianamente l’amico computer. Frizzante il linguaggio ricco di neologismi.



"Una macchia di bianco" è lo scritto di Marco Di Meola, un giovanissimo scrittore e poeta cerretese che non è più tra noi, ma che del suo pur breve viaggio, ha lasciato un’impronta indelebile nella sua terra. Ha amato la parola, l’ha piegata alla sua sensibilità profonda, e in essa e con essa ha cercato e indagato fortemente il senso del viaggio. Un senso forse troppo nascosto sotto la coltre massiccia delle apparenze, delle incongruenze, delle illogicità. A noi ha lasciato i suoi pensieri, le sue emozioni fissate nei versi e nelle righe della sua prosa, come consolazione agli interrogativi irrisolti, alle ansie mai sopite. Nel personaggio di Giorgio troviamo l’attaccamento ai valori di un passato lontano, alle piccole bellezze note del suo borgo, all’ingenuità di un vissuto ormai scomparso. D’un tratto la violenza inaspettatamente entra nella sua lenta quotidianità. Resteranno le lacrime a testimonianza di un’innocenza perduta per sempre. E poi però c’è l’amicizia vera, quella che aiuta a continuare quella che ti interroga e ti costringe a riflettere con domande come: perché continuare a scrivere sempre con aggressività, violenza e colori forti? C’è un tempo per combattere e un tempo per deporre le armi. E quest’ultimo è il momento nel quale è necessaria una spennellata, una macchia bianca da far asciugare, per poi sperimentare i toni pastello. Grazie Marco, per averci provato.



Il racconto di Massimo Varchione si intitola "Ossa". La forma è assolutamente originale, come lo svolgimento che si avvale del linguaggio della chat. I risvolti erotici, anche un po’ osé, sono un intelligente espediente per celare un finale davvero sorprendente e assolutamente inatteso. Un bell’esempio di scrittura innovativa, adatta al genere del racconto.



Con "Carne di famiglia", Ursula Iannone offre una prova di bella scrittura. Il racconto, infatti, presenta uno stile un po’ sospeso tra piani diversi: ricordi, sogni, premonizioni. La stessa mostruosità dei fatti si tinge di allucinazione, di immaginifico e di reale. Le memorie si mescolano agli incubi, la dimensione onirica si carica di simboli premonitori. Sui colori descritti prevale il rosso: quello della foglia di acero, del cappottino rosso, delle gocce di sangue. E al centro della scena c’è un muro, a trasferire forza alla gracilità malata del protagonista. È difficile vivere quando si arriva a comprenderne la spregiudicata bellezza.



"Stralci Inediti di Cronache Celesti" è il racconto di Ferdinando Silvestri, che trasporta il lettore in una dimensione astrale, fra le nebulose di Orione, alla ricerca degli dei o di Dio, sempre che questi abbia voglia di occuparsi del cosmo. L’importante è che nell’universo ci sia la luce, la pace. A mio avviso la storia risente della passione dell’autore per i fumetti. Infatti le sue parole disegnano immagini di grande effetto. Il racconto ha i connotati della fantascienza, trasporta il lettore verso orizzonti universali, a distanze siderali dal pianeta terra. In un luogo senza tempo, da dove Dio sorridendo osserva la scena.



Giovanni Vergineo con il suo racconto dal titolo esplicito "Pippe", scaraventa, con crudo realismo, il lettore nel mondo degli adolescenti delle generazioni pre-internet, quando soddisfare i bisogni sessuali era un vero atto di eroismo. Occorreva procurarsi il materiale giusto in edicola, sfidando le occhiatacce della giornalaia, per comprare riviste e cassette VHS anche per gli amici. Poi occorreva salvare l’onore e se arrivavano i genitori, inaspettatamente, bisognava liberarsi subito del corpo del reato. Fu così che la cassetta dei sogni volò dalla finestra, nell’erba di un terreno abbandonato, dietro casa. Recuperarla non sarebbe stato facile. Avrebbe richiesto il coraggio di addentrarsi in un luogo sconosciuto, ricco di pericoli. Il racconto è una metafora? Rappresenta il limbo da attraversare per diventare uomini? Certamente l’incontro che i protagonisti hanno faccia a faccia è con la realtà più crudele. E l’attraversamento della selva suggerisce una sorta di rito di iniziazione verso l’età adulta. Infatti, alla fine, puntuale arriva la sentenza: “io con il porno ho chiuso”. Il ritmo del racconto è incalzante, le descrizioni e gli ambienti sono cinematografici. Un delizioso affresco di un tempo non lontano, che ha già il sapore del passato.




Alessandro Caporaso è l’autore del racconto "Dr. Hinkfuss", un tuffo nei ricordi giovanili: le aule della scuola, i personaggi come Parola, il compagno che non parlava mai, gli odori delle professoresse, le lunghe penombre, foto in bianco e nero appese ai muri dei corridoi. E poi Alice, i suoi capelli biondi, l’emozione del fare l’amore con lei di pomeriggio, lì sul banco. E un finale sorprendente, inaspettato. La scenografia: un terrazzo sul quale c’erano solo antenne per la televisione, piccioni e caldo. Un caldo insopportabile. Il racconto alterna pezzi di presente e di passato, in un’altalena fra ricordi, emozioni e ferite recenti. È il grumo dell’esistenza. È la voglia di libertà dei personaggi che li spinge ribellarsi Questa sera, dottor Hinkfuss, si recita a soggetto! Avrebbe detto Pirandello.



"Del lupo e dell’uomo" è la storia di Emanuele Corbo. L’eterna lotta tra il mondo animale e quello dell’uomo è descritta con un meticoloso incedere degli eventi. A scandire i giorni della vendetta del lupo verso l’uomo crudele sono l’alternarsi nel cielo di un disco d’argento e di un disco d’oro. Lupo uccide solo se minacciato. L’uomo ammazza un suo simile anche solo per supremazia o per diletto. Molto interessante in questo racconto semplice, delizioso immerso in un’atmosfera assolutamente naturale, l’operazione che l’autore fa di transfert di sentimenti umani all’animale e della ferinità all’uomo. Un modo antico (Esopo, Fedro) ma nello stesso tempo originale di costringere a riflettere sui nostri peggiori vizi. Lo stile è scorrevole e piacevole.



Il racconto, intitolato "Non c’è viola senza spine", dell’aquilano Alessio Paolucci ha un incipit idilliaco, con una descrizione agreste molto ricca di colori, quasi un quadro impressionista. Uno spirito panico sembra pervadere la figura umana immersa in tanta lussureggiante natura. Ma “non c’è viola senza spine” E così il velo delicato di un paesaggio incantato viene squarciato da una inaspettata sorpresa. L’entrata in scena di un personaggio selvatico, sorprende il lettore e lo catapulta in un’atmosfera tutt’altro che sognante. Stridente e sorprendente l’accostamento, in questa storia delle descrizioni naturali, delicate, minuziose, colorate, all’entrata in scena di personaggi con caratteristiche rustiche e anche per certi versi comiche. Alla fine, però, l’amore salva tutto.



Giovanni Rossi è l’autore di "Diario di cantina", un bel racconto breve, molto intenso e originale, focalizzato su due personaggi, due amanti chiusi in una cantina, e sulle loro emozioni, colti ad uno snodo importante della loro storia. La scrittura molto compatta riesce a coinvolgere il lettore in un crescendo di emozioni, ben dosate, senza eccessi. Lodevole la sapienza dell’architettura della storia, ridotta all’essenza, ma capace di rimandi ad infinite suggestioni. Anche il finale è sorprendente, inaspettato. L’autore ha saputo concentrare un coacervo di sentimenti in poche scene, peraltro concentrate in un solo piccolo spazio. Una sperimentazione riuscitissima.



"Il secondo respiro", di Alfredo Martinelli, ha il sapore di una storia surreale nella sua drammaticità. Costruito su due livelli, quello reale e quello immaginifico, poi sapientemente alternati, anzi mescolati in giuste dosi, il racconto acquista un’aura di assoluta singolarità. Il protagonista vive un’esperienza terrificante che cambierà il suo rapporto con la vita. Tutto sembra frutto di un’esperienza fantasiosa. Ma, a volte, la realtà può essere più mostruosa dell’immaginazione. Lo svolgimento della storia è avvincente, caratterizzato da un continuo crescendo, che abbandona il lettore solo allo scioglimento finale.



"In provincia non succede mai niente" di Antonio Furno è ambientato a Benevento. Il protagonista, l’ingegnere informatico Cavuoto, lavora per le poste italiane. Servizio notturno. Sorveglia container pieni di server con vari processori e macchine virtuali. In provincia non succede mai nulla. Tutto sembra scorrere sempre monotonamente. E invece a volte l’apparenza inganna. In un mondo assolutamente globalizzato, anche i gesti compiuti da un uomo in un territorio sperduto procurano conseguenze formidabili altrove. Nessun uomo è un’isola, scrive John Donne. E questo racconto ce lo dimostra nel modo più simpatico e divertente possibile.



"Scacco matto", di Marialaura Orlando è un delizioso cammeo. Caterina, una fanciulla resa fragile da un passato tragico, trova il suo riscatto nel gioco degli scacchi. È un racconto molto delicato, lineare, costruito sapientemente. L’autrice ha saputo alternare immagini forti e morbide pennellate di colore, senza mai alterare l’equilibrio della trama. Il risultato è un coinvolgimento totale del lettore, che viene catturato dallo svolgimento accattivante. Si può non sapere di sapere? Forse sì, quando un ricordo è così ben nascosto da non ricordarlo più.



Filippo Ciasullo è l’autore di "Arturo Bandini Cucciniello", un altro bel racconto della raccolta, divertente e ironico, brillante e seducente. Protagonista l’autore stesso, apparentemente una specie di simpatica canaglia un po’ beneventano, un pò avellinese, ma in realtà un sapiente tessitore di immagini lievi e riflessioni coinvolgenti, soprattutto quelle dedicate agli alberi. Il lettore avrà l’impressione, leggendo, di passeggiare per le strade di Avellino, con un amico estroverso, della cui compagnia non vorrà più privarsi.



Chiude la raccolta il racconto di Maria Pia Selvaggio, "Le sette ore", liberamente ispirato ad un fatto di cronaca avvenuto a Telese nel 1969. La penna tagliente dell’autrice schizza il profilo del personaggio protagonista, con tratti precisi ed essenziali, senza sbavature. Ogni parola, come una scheggia, trafigge l’immaginazione del lettore, con la violenza di un crudo realismo, coinvolgendolo in un lungo spasimo. Ora dopo ora, si consuma il dramma di un’intera esistenza, tra delirio e pazzia, violenza e allucinazione. È un racconto avvincente, non solo per il contenuto, ma anche per la bella scrittura, lo stile asciutto, il lessico ricercato. E per la grande capacità di affabulazione dell’autrice, che giustamente si definisce una punta di coltello che apre, strappa, richiude e va via.